Li Wenliang: l’appello inascoltato

Li Wenliang, è stato il medico cinese divenuto famoso in tutto il mondo per esser stato il primo ad aver lanciato l’allarme sullo scoppio della pandemia da Sars-Cov2 nella metropoli di Wuhan.

Nato a Beizhen nel 1986 è deceduto il 6 febbraio 2020 dopo aver contratto il Covid-19. 

Il giovane medico oftalmologo del Wuhan Central Hospital fu colui che lanciò verso la fine 2019 l’allarme per l’imminente arrivo della pandemia, inizialmente associata ad un ritorno in forza della Sars e poi distinta come virus a sè stante.

Inizialmente accusato da diverse autorità cinesi di un eccesso di allarmismo, Li fu successivamente riabilitato nel momento in cui la situazione legata al coronavirus si faceva più grave per la Cina e per il mondo.

Risultato anch’egli contagiato morì di coronavirus nel periodo in cui la pandemia si stava rapidamente diffondendo fuori dai confini nazionali.

Ma ripercorriamo la sua storia.

Fu il primo a scoprire il coronavirus.

Da quel che è si è potuto estrapolare dalla sua biografia, si evince che  Li era originario della città di Beizhen, 500mila abitanti, posta nella Cina nordorientale.

Diplomatosi con ottimi risultati nella città natale, si iscrisse all’università a Wuhan nel 2004, diventando membro del Partito comunista cinese e conseguendo ottimi risultati che l’avrebbero portato a trovare senza problemi un posto di lavoro al Wuhan Central Ospital, ove iniziò a lavorare come oftalmologo nel 2014.

L’ospedale di assegnazione di Li sarebbe diventato il primo epicentro della battaglia contro la pandemia che si sarebbe scatenata su scala globale nei primi mesi del 2020.

A fine dicembre 2019 la metropoli cinese iniziò a essere colpita da diversi casi di una nuova, virulenta polmonite.

Li, poco prima del Capodanno occidentale, venne in possesso delle immagini di un test effettuato nell’ospedale cittadino dalla dottoressa Ai Fen, direttrice del dipartimento emergenze, che mostravano la correlazione tra la polmonite in un paziente e una possibile infezione da Sars, la prima potenzialmente manifestatasi in Cina dal 2003.

Ai Fen sarebbe diventata il primo medico ad aver diagnosticato il nuovo Sars-Cov2: ma nella giornata del 30 dicembre a circolare per la città di Wuhan era l’ipotesi di un ritorno della Sars, e Li non perse tempo nell’avvertire amici e conoscenti della potenziale minaccia in atto.

La storia personale di Li nel cuore della pandemia comincia il 30 dicembre alle ore 17:43.

Nel gruppo WeChat degli alunni del corso di Medicina clinica dell’Università di Wuhan del 2004, infatti, Li scrive in quel preciso istante che a Wuhan sono stati registrati sette casi di Sars legati al mercato del pesce di Huanan a Wuhan, allegando foto delle diagnosi realizzate da Ai Fen.

Aggiungendo, come ha riportato The Beijing News, di “non far circolare queste informazioni”, Li scrisse che c’era la certezza che “si trattasse di infezioni da coronavirus, il cui tipo preciso deve ancora venir specificato”.

Ben presto, tuttavia, l’avvertimento di Li fece il giro del web cinese.

La polizia di Wuhan, il 3 gennaio, censurò il medico per “aver fatto commenti falsi su Internet”.

Tuttavia, Li non era stato sanzionato ed era potuto tornare liberamente al lavoro, venendo tuttavia minacciato di poter subire un procedimento formale in caso di recidiva e dovendo firmare un comunicato in cui il suo operato veniva censurato: “L’autorità di polizia spera che tu possa cooperare con il nostro lavoro, ascoltare l’ammonimento degli agenti di polizia e smettere di condurre attività illegali. Sei in grado di farlo? […] Ti consigliamo di calmarti e riflettere attentamente. Ti avvisiamo severamente: se sarai testardo, non mostrerai pentimento e continuerai a condurre attività illegali, sarai punito dalla legge”.

L’8 gennaio, tornato in campo in ospedale, Li contrasse il coronavirus, che nelle settimane successive viene definito come l’oramai noto Sars-Cov2: il 12 gennaio Pechino fu in grado di consegnare il genoma del nuovo coronavirus all’Organizzazione Mondiale della Sanità.

In quello stesso giorno, Li fu messo in quarantena.

Secondo l’esperto dottore Yu Chengbo, originario di Zhejiang e spedito a Wuhan nel pieno dell’epidemia, Li avrebbe contratto il coronavirus curando un glaucoma a un commerciante del mercato alimentare di Wuhan dove era scoppiato il primo focolaio del virus.

Il contagio correva con maggior tenacia giorno dopo giorno per la città di Wuhan e l’avvertimento di Li, per quanto formalmente riguardante un presunto ritorno della Sars, si era dimostrato fondato nella sostanza: la Cina avrebbe dovuto fronteggiare una pandemia senza precedenti.

Il 4 febbraio, “la Corte Suprema del Popolo, massima autorità giudiziaria, si era espressa a loro favore, sostenendo che le loro affermazioni non erano del tutto false e che, anzi, col senno di poi, sarebbero state di pubblico beneficio.

Il “medico cinese”, che aveva avuto la certezza dell’infezione da Sars-Cov2 solo dopo aver effettuato il tempone il 30 gennaio, “aveva commentato positivamente questo responso”, dichiarando che una società sana a suo parere doveva potersi esprimere con più voci, “ma già il giorno dopo la sua situazione si era aggravata.

Il giorno successivo era stato trasferito in rianimazione, ma senza successo, morendo poche ore dopo, la mattina del 7 febbraio”.

Li, che prima di esser ospedalizzato aveva dichiarato di voler tornare in prima linea appena dimesso, divenne così il primo medico divenuto famoso per esser caduto combattendo sul fronte del coronavirus.

Ne sarebbero morti a decine in Cina nello stesso periodo, a centinaia in tutto il mondo nei mesi successivi: la sua morte suscitò un’ondata di cordoglio.

La sua figura divenne presto simbolo di trasparenza comunicativa e gli hashtag dedicati alla sua scomparsa raggiunsero in poche ore 600 milioni di visualizzazioni.

Li, morto ufficialmente da personalità riabilitata dagli apparati cinesi, è divenuto negli ultimi giorni della sua esistenza terrena e, soprattutto, dopo la sua morte, una sorta di eroe a livello mondiale.

La Stampa, nella giornata dell’1 febbraio, era stata una delle prime testate occidentali a parlare del caso Li citando il giovane oftalmologo come un medico “silenziato dal regime”, paragonandolo di fatto a un whistleblower.

Su diversi portali informativi occidentali Li è stato presentato come una vittima del sistema cinese e della sua repressione, ma questo non è propriamente corretto.

Al massimo, ed è comunque un tema fondamentale, Li ha pagato sulla propria pelle, con l’istruttoria nei suoi confronti, l’opacità delle strutture verticistiche del Partito comunista cinese e la lentezza nella comunicazione tra centro e periferie pur fondamentali come quella di Wuhan.

Al contempo, è innegabile sottolineare, come fa notare il South China Morning Post, che Li è divenuto controvoglia una figura di fama nazionale prima e globale poi: Li, infatti, non era “intenzionato a avvertire il grande pubblico circa la possibilità dello scoppio di una nuova epidemia sconosciuta” ma piuttosto ad avvertire una cerchia ristretta di amici circa un problema sanitario che si riteneva circoscritto a Wuhan.

Solo in un secondo momento, conscio della percezione dei cittadini cinesi circa il tema della salute pubblica, Li ha compreso che proprio in questa percezione e nei timori dei suoi connazionali per lo scoppio di una nuova pandemia si era radicata la vasta popolarità assunta dalla sua figura.

Li è l’idealtipo del medico che muore dopo aver giurato piena fedeltà alla sua missione di dedicarsi al salvataggio delle vite umane: e forse il suo reale atto di eroismo non è stata la trasmissione di notizie via WeChat che l’ha reso famoso ma la scelta di tornare a combattere, in prima linea, nell’ospedale conscio dei pericoli che Wuhan presentava e di dichiararsi pronto, anche dopo aver contratto il coronavirus, a tornare in battaglia.

Perché un medico è per sempre e deve essere eroe nella vita quotidiana: dalle piccole comunità delle province di Bergamo e Brescia alla regione di Madrid, da New York al Brasile, decine di migliaia di medici sono diventati, come Li, guerrieri in prima linea, si sono assunti i rischi e, in molti casi, sono morti per una missione professionale.

L’eroismo della vita quotidiana si è manifestato nella pandemia più che in altre circostanze: e a Li va il merito di aver aperto la via a questa scelta coraggiosa.

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